ESISTO ANCH’IO – storie e testimonianze PARTE TERZA

L’agency indica la capacità di una persona di uscire da una situazione di malessere o disagio, contando sulle proprie forze e sulla propria capacità di essere indipendente e attiva. Le persone povere, sole o che affrontano disagi sociali di qualunque tipo non possono essere trattate come vittime inermi e totalmente passive, perché questo significherebbe negare loro la propria capacità di cambiamento, di adattamento, di ribellione; la loro agency in generale. Questo scorcio di vita, l’ultimo che posteró per questa raccolta, ricorda che una persona in difficoltà non è un bambino senza capacità di decisione, da proteggere con l’autorità di un genitore, ma una persona completa, piena di stimoli e di soluzioni già dentro di sé, da aiutare da pari a pari, nel pieno rispetto della sua indipendenza e unicità.

III.

“Faccio la prostituta, la puttana, la mignotta, come vuoi dirlo tu dillo, non sono tenera come le gattine che salvi dalla strada e non mi metto a piangere per una parola di troppo. Anzi, io sono quella che si incazza, sono quella forte che grida sulla strada di andartene per un altra via se stai combinando casini con me o con le mie amiche.

Non ho bisogno di te, ecco come te lo volevo dire; ora sì che ho trovato le parole giuste. Non ho bisogno della tua pietà, del tuo struggimento, di te che sfrecci con la macchina perché non mi vuoi vedere mezza nuda, e poi commenti alla tua bella signorina qualche cosa come “poverina, non deve essere facile”. E poi continuate, e pure lei dice “poverina, non ha trovato di meglio ed è costretta a vendere il suo corpo, é obbligata, é una vittima, la sfruttano e fanno di lei quello che vogliono.” Eh no, bello. Non ci credi, offende la tua morale, il tuo senso del giusto e del bello, ma qui non c’è nessuno che mi sfrutta. Porto i miei clienti a casa mia, scopiamo, danno i loro soldi a me e se ne vanno via. E non é neanche così difficile come ti pensi!

Te la faccio ancora più chiara, ascolta: tu non mi puoi salvare perché non c’è niente da salvare qui. Farò abbastanza soldi e riuscirò finalmente a pagare un vecchio debito, e poi finirà lì. Niente mafia, niente botte e niente film americani. Dai retta a me, che il lavoro lo faccio da qualche anno; c’è un solo rischio, una sola cosa importante che ti devi sempre ricordare: il preservativo! “

ESISTO ANCH’IO – storie e testimonianze PARTE SECONDA

II.

Vedo un sacco di ragazzi entrare e uscire entrare e uscire entrare e uscire da quelle porte. Sono tutti così piccoli e scommetto che a loro perdonano tutto, e anch’io gli perdono di passare a un metro da me senza neanche accorgersi che ci sono, e che muoio di fame. Pazienza, non se ne accorge nessuno. Perché dare la colpa a dei ragazzini?

Loro non mi vedono neanche ma io li conosco tutti quanti. Conosco le loro facce, sempre le stesse, tutte le mattine. Mi ricordo di quando ero piccolo pure io e a scuola ci si andava una volta sì e l’altra no perché mio padre aveva bisogno di aiuto al mercato. Vendeva calzini, mutande, cose che servono a tutti, e io che ero un bambino scemo, io che ero un bambino scemo, io che ero un bambino scemo mi chiedevo ma perché non siamo ricchi, se le mutande servono per forza a tutti quanti e se le devono comprare tutti?

Poi mio padre è morto. Morto d’improvviso. E non mi importa che sono cose che succedono, mi importa che è successo a me. Al mercato mi chiamavano tutti lo scemo perché parlavo male e stavo là solo perché papà mi ci portava. Morto lui morto lui morto lui – siamo morti tutti.

Prima ero scemo, ora sono invisibile. Almeno nessuno si accorge più che sono scemo. Però non si accorgono neanche che ho freddo ho freddo ho freddo. La notte è difficile stare fuori, se ti addormenti lo sai che rischi che non ti svegli più. Ma che ne sai te che ne sai te che ne sai te.

Ci stanno dei ragazzini che ci vengono una volta sì e l’altra no a scuola, e quando li vedo passare gli grido di tirare dritto e non mancare troppo alle lezioni. Loro si mettono a ridere e per un attimo un attimo – un attimo mi guardano e io per quell’attimo esisto.

ESISTO ANCH’IO – storie e testimonianze

Ho raccolto ed elaborato alcune testimonianze, che resteranno anonime per volere mio e delle persone che me le hanno concesse. Sono tutte storie di persone ai margini della nostra società, persone sole, senza una fissa dimora, senza certezze, povere o semplicemente ormai troppo stanche. Soprattutto per questo le ho aiutate a credere che sia ancora utile parlare tra di noi, raccontare la nostra storia a chi vuole ascoltare, e io volevo conoscere la loro. Pubblicherò sul blog un ricordo a settimana, perché so che c’è qualcun altro ancora che vuole ascoltare. E grazie lo dico non a voi, ma a chi si è fidato di me per questo. Il mio primo desiderio è che io possa aiutarti almeno la metà di quanto tu hai aiutato me.

I.

Non mi ricordo che giorno é. Mi ricordo solo che sono giovane, non conosco bene nessun posto e non capisco a che mi servirà tutta questa mia energia. Sono femmina, e questo fatto da solo non significa niente, ma visto che sono femmina qui, significa sfortuna. La prima delle mie sfortune.

Mi ricordo un vecchio seduto su uno sgabello che dice a un bambino che la fortuna non esiste, e non esiste neanche la sfortuna. Se ci penso ora mi viene da stringere i pugni e batterli sulla prima cosa che mi capita, se ci penso ora penso solo a quanto privilegio tocca a quel vecchio per pensarla così. Alcuni maschi pensano da maschi e basta, ma anche le femmine esistono ed esiste la sfortuna.

Io esisto. In modo non troppo ingombrante, purtroppo. Neanche posso dire da dove vengo, o dove andrò e di certo non ho bugie per tranquillizzare i bambini. Niente bugie, questa é la mia seconda sfortuna. Non sono muta, io qualcosa lo posso dire. Ma se mentissi io neanche un bambino piccolo ci cascherebbe, quindi che lo faccio a fare. Io questo potere non ce l’ho. È tutto troppo chiaro qui, ed é troppo dura: questo é il punto. Immagina che sei con tuo figlio su una barca in mezzo al mare ed inizia ad entrare acqua, e tu sei una femmina e lui un bambino e ammesso che ce l’hai – ma chi puó chiederti di averne? – usi il coraggio e gli dici che andrà tutto bene. Quello ti guarda con gli occhi pieni di paura e mentre finite sotto l’acqua continua a guardarti senza aspettarsi niente da te. E te lo guardi e capisci che pure un bambino lo sa che succede quando sale l’acqua. Succede che l’acqua si prende tutto.

Che c’è da dire? Si capisce da solo. Tu sei solo una femmina, e lui é il bambino. E dove è finita tutta quell’energia? Perché non te ne danno mai abbastanza? Eccola qua, la mia sfortuna numero tre, che non c’ho la forza di salvare i bambini ma mi arrabbio lo stesso se sento un uomo dire che la vita é facile e la fortuna te la crei da solo. Ho il coraggio di dire a lui che non é vero quello che racconta, e non ho il coraggio di raccontare al bambino che affonda che si salverà.

Non si è salvato, e non è colpa del mare. La colpa è mia, che quando mi arrabbio tipo pugni all’aria e discuto con i vecchi, invece di esistere. Dovrei esistere, farlo meglio, farlo in modo più ingombrante, vergognarmi, dirvi da dove vengo e dove voglio andare e andarci.

Io vengo dalla Nigeria. Sono alta, bella, ho vent’anni e ho visto un bambino morire e quel vecchio ridere. E voglio stare in Italia adesso, ho già deciso. Ve lo dico un’altra volta: esisto anch’io. Esisto, esisto ancora. È questa, per ora, la mia unica fortuna.

Dire addio alla “fede” nella scienza

Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.

Karl Popper

La scienza lotta da sempre contro l’instancabile bisogno dell’uomo di ancorarsi, cieco, al primo scoglio che gli sembra sicuro, anche se questo è solo un’illusione, e anche se nuotando nell’oceano troverebbe invece qualche cosa di reale. Ma è così: l’uomo ha il vizio di credere alle cose che vorrebbe fossero reali e, soprattutto, a quelle che renderebbero più semplice la sua vita.
La scienza, invece, pur figlia dell’uomo, lo urla da quando è nata che il mondo non è semplice, che non abbiamo una spiegazione per ogni cosa, che possiamo descrivere quello che abbiamo intorno solo aprendo gli occhi, e non sempre possiamo credere a quello che ci hanno detto che era reale.
La scienza è un atteggiamento mentale, quello di chi cerca la verità. In questo senso si potrebbe descrivere come un movimento di cose, uno stato in divenire, una serie di tante azioni, un percorso. Ma quello che la scienza, mi sembra, non può essere mai – vale a dire non dovrebbe essere mai – è una certezza. Uno scienziato certo è uno scienziato morto, uno che ha smesso di imparare. Uno che ha iniziato a credere, ad avere fede nella scienza, e che quindi, pian piano, inizierà a pensare che (solo) la scienza non può essere messa in discussione. In fin dei conti, anche uno scienziato non è altro che un uomo, con quello stesso vizio della sicurezza: deve sapere che c’è qualcosa in cui può credere, qualcosa di più, qualcosa che non cambierà mai e in cui potrà sempre trovare rifugio. E magari, per un uomo che è anche uno scienziato, quella cosa è proprio la scienza che, dirà, ha sempre ragione.
Ma la scienza non è un rifugio, è un campo aperto. Così un uomo di scienza saprà, e non può dimenticare, che la scienza dimostra qualcosa fino a quando non se ne dimostra il contrario. Dovrebbe sempre essere possibile controbattere e bisognerebbe sempre evitare di assumere come veri i dati scientifici a priori, senza capirli e senza metterli alla prova. Perché la scienza evolve, e così facendo cambia, e un dato certo ieri oggi – o forse, chissà, domani – sarà possibile smentirlo.

Ogniqualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere.

Karl Popper


Ai suoi albori, la scienza era essenzialmente coraggio ed onestà. Un uomo critico ed arguto, uno scienziato, si accorgeva che le cose non erano poi come continuavano a dire tutti – che non lo erano mai state, perché la verità non cambia mai: siamo noi che ci spostiamo più o meno da essa.
A quest’uomo serviva molto coraggio, perché la sua era una lotta uno contro tutti, perché nessun’altro uomo voleva ammettere di essersi sbagliato fino ad allora. Lui, tremendamente scaltro e allo stesso tempo tremendamente onesto ipotizzava soltanto quello che poteva poi dimostrare, e non parlava da un podio, dall’alto della sua autorità, ma tramite gli esperimenti, tramite esperienze che tutti potevano replicare. Avrebbe detto: “Non dovete credere a me, non dovete assumere che sia vero il mio punto di vista: provate soltanto a guardare voi stessi, e vedrete quello che ho visto io, quello che c’è”. La scienza non è qualcosa a cui si deve credere, non è un’autorità insindacabile. Anzi: i primi scienziati in senso moderno hanno lottato in prima linea per combattere l’oscurantismo della Chiesa, le false credenze che venivano anche dal basso, l’ignoranza di chi non si mette mai in discussione.
Come si può voler fare della scienza quella ottusa, saccente maestra che a volte oggi mi sembra?
“Sono un chimico, credi a me, perché io ne so più di te”. Eppure no: io non devo credere in niente, devo soltanto capire.
Ok, mi si dirà; ma cosa si fa per quelli che non vogliono/possono capire?
Per quelli che non potevano capire, che all’epoca erano molti, la Chiesa aveva inventato moltissime verità, le aveva inventate e poi le aveva decise vere. Sappiamo ora che con la scienza non si vorrà mai inventarle, ma perché si dovrebbe ancora decidere per altri che non sanno, e per cui quindi quelle verità non sono verità – perché loro non le capiscono e quindi non le percepiscono come vere – ma solo un’altra serie di proposizioni complicate che vengono dall’alto di un Autorità?
Non è più il Papa, ma è la comunità scientifica; per il resto, però, le dinamiche non cambiano di molto. C’è, mi sembra, solo una differenza sostanziale: la Chiesa aveva tutta l’intenzione di creare schiere acritiche di non vedenti dietro di sé, di gente con la bocca chiusa ad ascoltare e prendere per vero ogni cosa che veniva loro detta.
Alla scienza invece serve un esercito esattamente opposto ad una massa passiva, e quindi questo atteggiamento per essa è estremamente controproducente. Quanti pochi uomini cresceranno onesti, coraggiosi e critici, in uno scenario del genere? A mio parere, molto pochi. In compenso saremo pieni di scienziati arguti, sì, e tanto intelligenti da sentirsi, se non il Papa in persona, comunque su un grado di autorevolezza molto maggiore alla media.
Ma la scienza non si fa da sopra un piedistallo; se non hai una mente abituata al ragionamento scientifico o se semplicemente non ci hai mai perso abbastanza tempo dietro, la scienza non dovrebbe esserti “imposta”, come se qualcuno che scende dall’alto potesse parlarti e tu dovessi soltanto credere a quello che dice. Cercare di imporre la scienza non porta a grandi risultati: le persone finirebbero per credere alla scienza come si crede ad un dogma, ovvero senza capire niente.
Bisogna che la scienza torni ad essere, a partire dalla quotidianità, dai discorsi tra amici davanti ad una birra, dalle conversazioni sui social, un campo di battaglia tra idee tutte contestabili (se puoi arrivare a dimostrarne scientificamente il contrario ovviamente) e abbattere questa specie di inutile altarino di fede… perché avere “fede” nella scienza? Andrebbe contro l’idea stessa di scienza.
Sono del parere che sarebbe meglio tacere piuttosto che forzare chiunque ad ingoiare la verità, a prendere tutti gli assunti per veri perché “vengono dalla Scienza”. Un uomo che si obbliga ad ingoiare verità per conto di ragionamenti di altri, è un uomo a cui si strappa un pezzo della sua capacità critica, un uomo che si aiuta ad abituarsi a non ragionare.

Serena Linari

Riferimenti:
Karl Popper (1902 – 1994)

Non smettiamo di chiederci il perché

Non smettete mai di provare a capire. Fare le domande non basta, bisogna anche cercare le risposte. E questo vale anche per le domande più ovvie, quelle che sembrano banali, quelle che conosciamo da una vita.
Magari ora pensi di conoscere quell’argomento a menadito: non importa, cerca con spirito critico di rivederne i contenuti e approfondirne il messaggio. Qualche volta, è questo il punto, la verità si nasconde. Di molte cose abbiamo una conoscenza scontata, ovvia, che non va più oltre l’apparenza. Molte cose non sappiamo neppure che ci sono, perché sono lì da così tanto tempo che non ci rendiamo più conto che sono proprio lì, e che magari lì ce le abbiamo messe noi.
Un sociologo americano, Garfinkel, usava, coi suoi studenti, degli “esperimenti di rottura” per svelare la realtà sociale. I suoi allievi erano invitati a comportarsi in modo difforme alle aspettative sociali (per es. potevano cercare di contrattare il prezzo di una capo che volevano acquistare in un negozio di abbigliamento) e ad osservare le reazioni di sconcerto e di rifiuto che ne sarebbero derivate. Le reazioni dimostravano che alla base delle quotidiane attività sociali ci sono delle regole precise, che rendono prevedibile il comportamento di chi le rispetta ed escludono chi non lo fa.
Sarebbe meglio dire che quello che mostravano veramente i suoi esperimenti erano i metodi attraverso i quali le persone in una società costruiscono delle regole di convivenza (pragmatiche, intersoggettive e “date per scontate”: questo è Schütz) a cui automaticamente si conformano, e si aspettano che anche gli altri lo facciano. Le aspettative reggono insieme la società tutta.
Secondo Garfinkel il sociologo deve studiare la società senza dar nulla per scontato, nessuno dei piccoli rituali della vita quotidiana, niente: perché ogni cosa dice molto di più di quello che ci sembra di sapere al suo riguardo, prima di studiarla con l’occhio critico ed esterno dello scienziato.
Specialmente oggi, che è così facile strumentalizzare ogni situazione, questo è di fondamentale importanza. Non saper vedere significa dover usare gli occhi degli altri, che possono essere occhi interessati, occhi disonesti. Ci sono realtà molto facili da fraintendere e fraintendimenti molto facili da sfruttare, e anche quando sono sfruttati a fin di bene resta un pericolo per l’autonomia di ognuno di noi.
Non sforzarsi di capire, in effetti, significa proprio questo: abboccare all’amo delle verità dei primi che ci convincono che le cose stanno come dicono loro, e non diversamente. In altre parole, se non cerchiamo di trovare noi la risposta alla nostra domanda, altri la troveranno per noi, e quella risposta ci potrà sembrare valida in virtù del fatto che non abbiamo scavato abbastanza in profondità, non siamo riusciti a cogliere la struttura che si nasconde sotto, e troppo spesso la struttura è una bugia.
Durante la grande rivoluzione industriale, J. S. Mill riportava il clima che vigeva all’epoca del dominio panottico, quando le disagianti condizioni di vita delle masse di lavoratori raccolti nei quartieri operai erano arrivate agli occhi dell’attenzione pubblica.
Questi problemi sociali venivano trattati esclusivamente dalle élite per i poveri, considerati alla stregua di bambini da controllare e indirizzare. Bambini, che non potevano capire quello che era giusto per il loro stesso bene, così toccava ad altri deciderlo per loro e imporlo successivamente loro.
È sempre così che funziona: se siamo troppo deboli per partecipare (nel prendere decisioni tanto come nello scoprire la verità), partecipano altri al nostro posto, decidono per noi; e se siamo troppo impegnati in altro, troppo disattenti o indifferenti il risultato non cambia.

Cercare di capire, partecipare, interessarsi e procedere nella direzione del cambiamento sono tutte cose strettamente legate tra di loro. Se smettiamo di farci le domande e di rivedere criticamente tutte le risposte (degli altri, quelli che hanno il potere di attuare le decisioni, ma anche le nostre, quelle troppo sbrigative) abbiamo perso in partenza. Possiamo solo lasciare che altri si occupino di noi come di bambini, e sperare – ingenuamente – che saranno per noi dei buoni genitori.

Serena Linari

Libertà 2.0

Che cos’è la libertà? Fiumi di parole si sono spesi su questo concetto. Ma quello che vorrei capire in questa sede è cosa ne abbiamo fatto noi della libertà e del suo significato.
Cos’è, per noi, oggi, la libertà?
Rispondere a questa domanda significa innanzitutto trovare altre domande. La prima che mi è venuta in mente è questa: quale valore attribuiamo oggi ad una libertà che non abbiamo mai lottato per ottenere?
Lo chiedo senza presunzioni e senza volontà di istigare alcun dibattito, ma solamente perché mi rendo conto che essere liberi ha un significato diverso in una realtà come la nostra. Non parlo solo della democrazia in sé, che esigerebbe opposizione e partecipazione, e per forza di cose anche lotte sociali. Parlo del tipo di democrazia che mi sembra di vivere come cittadina del mio paese, della democrazia che mi riporta in mente in continuazione le parole del sociologo Francis Fukuyama quando ci parlava della problematicità di una repubblica che pensa di essere arrivata allo stadio ultimo della sua evoluzione, e che ha proprio in questa presunzione il suo punto debole. Cittadini liberi che danno per scontata la loro stessa libertà, non soltanto perché essa è ormai un loro diritto insindacabile ma soprattutto perché hanno perso la loro attitudine alla crescita, al miglioramento. Si pensano liberi perché hanno la presunzione di esserlo, e dimenticano che sono liberi soltanto perché hanno combattuto per ottenere quel diritto. Mi correggo: non sono stati loro a combattere, non loro a morire per una causa maggiore. La libertà della maggior parte di loro non è neanche una causa maggiore, ma nasce e allo stesso tempo muore nell’unico punto in cui si sviluppa: la loro stessa individualità. Le vite degli uomini che hanno fatto la storia valevano molto più di una singola vita e loro ne erano in gran parte consapevoli; se la nostra libertà vale soltanto le nostre vite morrà con esse, e, male ancora maggiore, potrebbe non rinascere con la stessa intensità nella vita di chi ci seguirà. La libertà non è infatti un dono, è una conquista, e non è un oggetto dato una volta e per sempre, ma è una facoltà che dobbiamo esercitare e proteggere se vogliamo mantenerla viva e vegeta.
Se mi chiedo cosa sia la libertà per la società che mi è più vicina, mi viene in mente un’altra problematica questione.
Hegel diceva che la libertà non può che essere universale, e cioè che la vera libertà si afferma con il diritto ad essere libero conferito ad ogni uomo, ad ognuno autonomamente; per questa ragione il nostro diritto ad essere liberi non ha senso se siamo gli unici ad esercitarlo. Ma questo è ancora vero oggi, possiamo ancora affermarlo con sincerità se non riusciamo neanche a capire perché abbiamo la necessità di aiutare uomini disperati, lasciati soli con la promessa di un Europa libera, ma che non vuole saperne della loro, di libertà? Forse non possiamo più dirlo, non con onestà perlomeno. Però è ancora vero, è ancora così: se esiste un tale diritto è perché è esistita la lotta di un uomo, che, unito a tanti altri, lottava per se stesso, per la sua libertà, e, ottenuto il diritto ad essere libero, l’ha ottenuto per tutti.
Temo che le due questioni siano collegate, perché nessuno sa cosa sia la libertà e quanto sia importante più di uno schiavo, di un suddito o di una persona che in generale non ha mai avuto la fortuna di vedersi riconosciuto questo diritto. Ho detto una fortuna, ma si potrebbe dire anche un privilegio, perché è questo che è la nostra libertà, se pretendiamo di viverla a questo modo: una mera fortuna, un diritto di pochi e un accessorio gradito che non tutti possono indossare, perché non ce ne è per tutti.
Per noi sì, per noi non è ancora esaurita, e se è così è soltanto perché qualcuno prima di noi l’ha presa, l’ha rubata, l’ha costruita o è andato lontano a recuperarla per sé, per i suoi figli e in ultima istanza per tutti noi, dove tutti noi per esempio vuol dire tutti noi italiani o, al massimo, tutti noi europei (o quasi).
C’è di più. La libertà che più afferma il capitalismo avanzato delle nostre democrazie occidentali è la libertà di fare quello che si vuole. Sei libero di comprare, di visitare, di mangiare, di bere e di ottenere quello che vuoi, se ne hai i mezzi economici, si intende, e se non li hai è per via di una mancanza che può essere imputata soltanto a te stesso: la tua è la migliore società possibile, con il numero maggiore di opportunità (così tante non si erano mai viste prima). Sei libero di scegliere cosa indossare, quale identità oggi ti fa più piacere impersonare, senza conseguenze perché tanto domani puoi anche buttarla. Buttala, tanto non l’hai conquistata, non ti sei neanche accorto degli sforzi che ti ha costato e del tempo che, comunque, ti ha portato via. E il tempo è una conseguenza. Il tempo non torna indietro e, come la libertà, non è un dono o una fortuna. Non si tratta di questo. La libertà è ancora impegno, è fatica. Non si può scordare che la libertà è anche fatta di lacrime, di violenza, di guerre e di sangue, così come la storia e, in un unico continuum, il tempo.


Cerco di tenere sempre in mente che sono libera, che oggi sono per esempio libera di scrivere e di studiare, ma non voglio fermarmi qua. Io non voglio esercitare la mia libertà come un privilegio temporaneo, ma come un diritto inalienabile e universale. Per questo oggi la mia libertà è ancora in discussione, e se mi chiedete se sono libera vi rispondo no, grazie. Se me lo chiedete vi dico che sarò libera quando riconoscerete lo stesso diritto a tutti. Fino a quel momento la mia libertà è soltanto un privilegio, che cercherò di usare per realizzare questo mio sogno un po’ ambizioso.

Serena Linari

L’intellettuale: disonesto o muto o… ?

Non è facile scrivere il dolore, allora i media oggi mostrano sempre più le immagini dell’orrore che dilania il mondo, un orrore che in quanto tale si può fotografare e si può narrare. Come ho detto, l’orrore è un immagine, l’immagine di un dolore che non può essere percepito facilmente ma che come tale, come rappresentazione, non può restituire totalmente la verità di quello che vuole raccontare.
Questa similitudine tra dolore e la sua sola immagine è stata a mio parere ben esplicitata in un verso di una delle canzoni di De André. Qui il cantautore fa parlare le madri dei ladroni che furono crocefissi insieme a Gesù; sono loro a dire a Maria che il suo dolore, dato che suo figlio risorgerà, non è che l’immagine di un’agonia, solo un’immagine e nient’altro. Ecco: l’orrore non mi sembra altro che l’immagine del dolore, un’immagine ricostruita e portata alla coscienza o perlomeno all’attenzione di tanti o tantissimi, ma che, in quanto tale, non restituisce abbastanza dell’originario dolore.
Con questo non voglio dire che dovremmo imparare a conoscere il dolore sulla nostra pelle. Io sono grata del mio privilegio (o, per continuare a tenere a mente la canzone, che mio figlio realisticamente sarà un “Gesù” e non uno dei ladroni) e non posso disconoscere per nessuna ragione niente di questo. Ma penso anche che l’orrore sia solo il punto di partenza, e non l’arrivo, di una corretta diffusione dell’informazione.
Davanti al dolore nasce in me questo interrogativo: quanto è superficiale in noi questo aspetto della vita? Per noi morire di fame è solo un discorso, è solo una canzone? Queste domande scaturiscono soprattutto da una riflessione quasi banale nella sua semplicità; laddove sono i privilegiati, i benestanti che hanno il tempo di cantare, anche se decidessero di cantare, di scrivere o di combattere per gli esclusi, per i sofferenti, resterebbero lo stesso ricchi, resteremmo noi che tentiamo di spiegare il mondo senza capire veramente il dolore che non lascia scelte, senza capire veramente come vive gran parte dei suoi abitanti. Abbiamo noi una percezione abbastanza veritiera delle loro vite, delle loro sofferenze, delle loro esperienze, dei loro caratteri? E ancora: le immagini che ci riportano gli strazi di una guerra, della fame, di un disastro umanitario o naturale ci forniscono una visione abbastanza significativa, specialmente oggi, nell’era dell’informazione lampo? Spesso ho sentito dire che una foto, su una piattaforma internet, resta nelle nostre menti troppo poco a lungo per sedimentarsi e renderci capaci di sviluppare al riguardo riflessioni degne di tale nome. Scorriamo, a forza di click, e nel giro di pochissimo tempo veniamo invasi da una quantità di notizie enormi, notizie che cercando di catturare la nostra attenzione attraverso immagini e escamotage narrativi perché senza di essi non siamo più in grado di distinguere tra notizie degne di nota e notizie da tralasciare.
Stando dietro ad un computer o allo schermo di un telefono cellulare vorremmo, nel migliore dei casi, tentare di conoscere una realtà che non ci appartiene. Dimenticare questo punto comporta un atteggiamento presuntuoso che non possiamo permetterci né nel nostro compito di informarci né in quello di informare. Studiare significa essere aperti alla conoscenza, significa continuare a cercare consapevoli di non raggiungere mai la meta agognata, perché ogni passo in avanti scopre terre inesplorate che prima non sognavamo neppure di conoscere e che adesso possiamo iniziare a percorrere, sapendo pure che non saranno mai le ultime. Non c’è un punto d’arrivo né alcuna tappa finale. Ma l’onestà che presuppone questo atteggiamento non è difficile da perdere.
In City Baricco scrive il Saggio sull’onestà intellettuale. Questo piccolo tesoro di verità contiene poche e concise tesi che senza girarci intorno descrivono l’atteggiamento dell’intellettuale umanamente disonesto, colui che usa le idee come armi – le uniche che conosce – per assicurarsi la sopravvivenza in un mondo competitivo e aggressivo.
In questo processo l’uomo perde la sua verità, tradisce le sue idee perché le trasforma in oggetti per potersi guadagnare da vivere. Baricco non chiede di più all’uomo, anzi: definisce disumano sforzo un atteggiamento opposto a questo, perché un intellettuale armato di idee è solo un uomo che vuole sopravvivere, come ogni altro, e che ha solo le idee da usare come strumenti per realizzare questo fine.
In più, l’autore aggiunge, lapidario: un’altra vita saremo onesti. Saremo capaci di tacere.
Rimanere in silenzio quando non si può essere onesti: questo il messaggio finale del Saggio. Ma non è ridicolo uno scrittore, un giornalista, un sapiente costretto a tacere per non usare le proprie idee in modo sbagliato, di più, per riuscire a non usarle affatto? Baricco scrive che un intellettuale onesto é un ossimoro, e se fosse così allora la sua onestà risiederebbe davvero nel tacere. Ma al di là dell’importanza di saper anche non parlare, non dire e non scrivere, oggi capacità davvero poco diffusa, a mio parere c’è di più; le possibilità di onestà si allargano se si tiene a mente che noi nasciamo (come uomini e donne prima, come studiosi e studiose poi) dal privilegio, e nel privilegio leggiamo e scriviamo, studiamo e raccontiamo, e, quando c’è ancora da capire e da studiare, allora capiamo la necessità di tacere.
Ancora De André, ancora la stessa canzone: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte.
Lasciateli piangere un po’ più forte, cioè lasciateli raccontare, parlare, gridare. Lasciateli piangere più forte degli articoli di giornale che riempiranno la nostra carriera, dei nostri studi, della nostra etica da esperti, del nostro background culturale, della nostra idea sul loro dolore. Così, a parere mio, ritroveremo un po’ dell’onestà che ci si vuole portata via, o irrimediabilmente perduta chissà dove nella strada della vita, della corsa per la nostra affermazione.
Questa non vuole essere retorica, non è un richiamo ai valori perduti. É una constatazione: il compito dell’intellettuale non sarà soffrire né perdere se stesso nel tentativo di capire gli altri, ma nei suoi studi c’è prima di ogni altra cosa la verità, che noi abbiamo la fortuna e il compito di raccontare, e che non possiamo mancare di rispettare. Esistono ancora persone nel mondo che non possono parlare, scrivere, studiare. Che, in generale, non hanno voce per gridare il loro pianto, e il cui singhiozzare è sovrastato dalle grida di chi racconta storie che non hanno dignità né verità, ma che sono armi nella lotta per la sua realizzazione personale. La nostra è una battaglia per sopravvivere, o una corsa per far sopravvivere la verità?

Avevo paura che queste parole suonassero come un inno di battaglia, come una tiritera intrisa di giusti e di sbagliati, come un’etica che la fa da padrona. Volevo cancellarlo o evitare perlomeno di pubblicarlo perché ho paura della retorica e non ne ho alcuna stima. Però, in tutta sincerità, penso che ci sia qualcosa di buono in questo scritto. Può darsi che non sia l’onestà e neppure la chiarezza, può darsi che suoni più ridicolo di quanto possa permettermi di sembrare io stessa. Accetterò questo peso, perché dovevo provarci lo stesso. Voglio che sia diretto e voglio che sia consapevole. Voglio provare, come ha sempre tentato De André, di proteggere il sacrosanto privilegio (che non riesco a chiamare ancora diritto, non essendo concesso a tutti a questo mondo) di raccontare il dolore (anche quello degli altri) continuando a considerare questo una grandissima fortuna, e una a cui va restituita la dignità che le spetta, e senza la quale perderebbe molto del suo significato, forse troppo. Forse tutto.

Serena Linari

Intervista a Barbara di Viaggiare a piedi scalzi

Riflettendo ancora sui diritti, sull’essere umani, sull’inclusione dell’altro ho avuto modo di intervistare Barbara di Viaggiare a piedi scalzi, con la quale abbiamo cercato di ragionare ulteriormente su questi temi a partire dalla sua piccola grande impresa: un viaggio zaino in spalla dalla provincia di Bologna all’isola di Lampedusa – scelta affatto casuale – per riscoprire i legami di una comunità a cui oggi tendiamo a dare significati troppo riduttivi.
Per troppi oggi la comunità è interpretata nient’altro che come un posto sicuro delimitato da confini certi, che divide l’estraneo da quello che conosciamo e dalle persone di cui possiamo fidarci, e che riduce l’eterogeneità per dare forma alla nostra ossessione per la sicurezza. Citando Ulrich Beck, Bauman ci ricordava che pensando in questi termini rischiamo di cercare un soluzione individuale a problemi comuni, affrontando anche le questioni sociali seguendo un ottica individualistica. Per capirci, questo sarebbe come cercare di usare la matematica o la logica per risolvere questioni di ordine morale; gesto non soltanto privo di senso e impossibilitato a produrre risultati validi, ma anche tendenzialmente pericoloso, un po’ perché ci rende impossibile individuare la reale causa (comune) di problemi (comuni) che noi invece viviamo come individuali, un po’ perché dà adito a pseudo-ragionamenti non soltanto privi di intelligenza, ma anche privi di tolleranza, perché il sogno individualistico di una comunità sicura è anche il sogno di una comunità che divide.
Col suo viaggio Barbara vuole parlarci di un altro tipo di comunità, una comunità che si allarga, passo dopo passo, e non si restringe mai (non intorno a noi stessi, non intorno alla nostra cerchia familiare e nemmeno intorno al nostro paese). È una comunità mobile che non immagino entro un confine ma che immaginerei piuttosto come un dono, un’attività, uno scambio: come quotidiana pratica di avvicinamento all’altro. Ed è proprio l’altro ad essere centrale nel viaggio – che è più un progetto – di Barbara.
I suoi gesti e le sue parole mi hanno ricordato anche Vecchioni che cantava di come al di là del torto e della ragione contino soltanto le persone, e che questo siamo noi a doverlo insegnare, prima di tutto a noi stessi, e poi gli uni agli altri, come sta facendo Barbara.

Barbara in viaggio per Lampedusa
foto di: Viaggiare a piedi scalzi

Ciao Barbara! Volevo innanzitutto chiederti riguardo alla tua indole da viaggiatrice. Hai viaggiato molto prima di intraprendere questo particolare viaggio? Cosa ti spinge a partire, e cosa ti lascia dentro ogni viaggio? Conoscere le culture, le persone, i luoghi, e conoscere tutto questo da vicino ti ha cambiata? 

Ho sempre amato viaggiare ma é dal 2015 che il viaggio ha assunto una funzione così chiaramente evolutiva nella mia vita; mi permette di diventare una persona più consapevole e di fiorire. Da quell’anno ho seguito, pur continuando a lavorare, i richiami di alcune terre, in solitaria o meno, con una particolare predilezione per il bacino del Mediterraneo ed il nord Africa. Ogni viaggio ha avuto un insegnamento ed è arrivato al momento giusto, dalle Seychelles alla Tunisia. Ogni volta è stato un passaggio, una iniziazione ed ogni viaggio mi ha portato ad evolvermi su qualche aspetto.
Il primo, lungo 100 giorni, nell’estate di quattro anni fa aveva l’obiettivo di farmi stare un po’ con la nuova me dopo grandi cambiamenti personali e sono profondamente convinta che io ora sono quella che sono grazie alle esperienze fatte, alle persone incontrate, agli imprevisti, ai km fatti a piedi o su un matatu keniota, agli stereotipi sgretolati, ai cibi, ai paesaggi ed ai passaggi ricevuti.


Puoi raccontarci brevemente il tuo viaggio? Da dove sei partita? Quale era il tuo itinerario e quale la tua meta? Quale, soprattutto, il motivo alla base di questo viaggio?

Sono partita il 21 marzo da Livergnano, in provincia di Bologna, con l’obiettivo di raggiungere Lampedusa e di farlo senza soldi, alla ricerca di forme di vita comunitaria, storie di cambiamento ed ispirazione finanziando Mediterranea. L’isola, la porta d’Europa, è stata scelta come luogo simbolo di confini che legiferati in questa maniera uccidono chi non è in possesso di un passaporto europeo. Il viaggio ha lo scopo di ritrovare ispirazione, di andare alla scoperta e valorizzazione dei miei talenti, di sperimentare il senso di comunità e la bellezza in questo paese e di poterla raccontare, e inoltre quello di stimolare il dialogo sul tema delle migrazioni.


Hai voluto percorrere la tua strada senza la tua auto, senza nessun compagno di viaggio, senza soldi. Perché hai scelto questa modalità per il tuo viaggio?

Viaggiare “da sola” mi permette di viaggiare con me, di essere libera nei tempi e nelle scelte, mi permette di ascoltarmi, di usare solo le mie capacità ed il mio istinto e, ho notato, di essere più aperta e socievole con gli altri e con il contesto.
L’idea di partire senza soldi nasce da una paura personale di rimanere senza denaro sorta quando ho deciso di cambiare strada dal punto di vista lavorativo: l’anno passato, non trovando più rispecchiati i miei valori, ho deciso di chiudere il decennio da operatrice sociale e avevo paura che non accettando più questo compromesso sarei potuta rimanere senza soldi. Ho deciso così di mettermi in gioco andando a fare proprio ciò che temevo: non poter usare il denaro. Avevo altresì la curiosità di comprendere quali altri mezzi di scambio ci sono tra esseri umani, dunque osservare le mie capacità ed i miei talenti e mettermi nelle mani della solidarietà altrui. Infine, non spendendo in vitto, alloggio e spostamenti, ho deciso di donare il risparmiato a Mediterranea, che si occupa di salvataggio di vite umane nel mare mediterraneo centrale e di cultura sull’argomento a terra.


Come hanno reagito i tuoi conoscenti (familiari, amici..) quando hai dichiarato loro l’idea del tuo viaggio? 

Tendenzialmente, ho compreso che ognuno reagisce per quello che é e per quello che ci vuole vedere. Le persone più spaventate erano quelle che avevano meno esperienza in termini di viaggio ed autostop, un amico viaggiatore e scrittore (Giacomo Luppi di con i piedi per terra) che dall’Australia è tornato a Modena senza aerei, alla notizia, ha sorriso e sussurrato “Babi, il mondo è un posto meraviglioso”.
La mia famiglia é abbastanza abituata all’immagine di me in viaggio e mia mamma mi ha raggiunta a Lampedusa. Mio babbo invece è molto più spaventato e vorrebbe per me una vita totalmente ordinaria, che, io so bene, non mi renderebbe felice. Tendenzialmente (ex fidanzato escluso!), ho ricevuto molto sostegno dalle amiche, dagli amici, dagli attivisti di Mediterranea e da tante persone conosciute grazie ai social network.


Puoi parlarci della donazione che hai elargito in favore di Mediterranea alla fine del tuo viaggio?

Ogni mese ho effettuato un bonifico bancario a Mediterranea, traducendo in moneta ciò che avevo ricevuto in scambio lavoro o donazione ed esplicitando il progetto a chi mi ospitava e mi dava un passaggio in autostop. L’ho fatto perché ritengo che sia uno dei più bei progetti di resistenza e di bellezza contemporanei in Italia che, esattamente come il mio viaggio, é possibile solo grazie ad un senso di comunità e di unione tra cittadini.
Sommando i primi due versamenti, finora, ho potuto donare circa 800 euro.

Cito direttamente dal tuo blog: “A me servivano i viaggi e mi servono ancora per rendermi conto [] che il mondo é molto più pericoloso se visto dalla tv che da un marciapiede.” Si può dire che con questo tu ti sia resa conto che non bisogna fermarsi alle notizie dei giornali, della televisione, ma invece bisogna impegnarsi a conoscere la realtà dal vero? Questo ti ha dato la possibilità di educare te stessa ad uno sguardo più attento, ad un pensiero più critico? Pensi che possa essere una cura contro i pregiudizi?

Assolutamente sì. Spesso dico che viaggiare dovrebbe essere obbligatorio. E chiaramente non mi si può dire che per farlo servono soldi!
Provo molta rabbia perché ritengo che i mezzi di informazione siano utilizzati per una propaganda che ha il chiaro scopo di separare le persone e rinchiuderle dietro la paura. Per esempio, la frase che mi sono sentita dire più spesso é “per una donna sola, di questi tempi é pericoloso…” quando secondo l’Istat, ma anche secondo la mia esperienza da assistente sociale e, purtroppo, anche nelle storie di diverse amiche, la maggior parte delle delle violenze accade per mano di un uomo conosciuto: un padre, un amico, un ex fidanzato. Con questo non sto negando o minimizzando il rischio di aggressioni da parte di sconosciuti, ma piuttosto affermando che la situazione attuale imporrebbe una riflessione profonda sul tipo di relazioni uomo/donna e sarebbe ben più utile e necessaria che inculcare timori e limitazioni alle donne sulla presunta esistenza di estremi pericoli appena uscite dal cortile di casa. Non è così. I pericoli sono percentualmente, più che altro, dentro le mura di casa.
Ecco – con le dovute precauzioni – andare nel mondo e rendersi conto che gli sconosciuti non sono poi così pericolosi come i mass media vogliono farci credere, credo sia un gesto di resistenza e di sviluppo di un indipendente pensiero critico nella ferma convinzione che ciò che viene esperito sulla propria pelle sia il miglior antidoto all’imperante clima d’odio ed agli stereotipi.


Questione politica; prima di fare questa intervista mi hai detto che il tuo viaggio, per meglio dire il tuo progetto di crescita, come tu stessa hai specificato, è necessario in un contesto come quello di oggi. Cosa volevi dire?

Il viaggio nasce come piccolo ma concreto gesto di resistenza alle norme che hanno reso il mar mediterraneo un mare di morte e come risposta alla domanda: abbiamo così bisogno di avere paura di ciò che non conosciamo? La risposta è no, non ne abbiamo così urgenza. Piuttosto abbiamo la necessità di scoprire, sperimentare e dare luce alla bellezza, di renderci conto dell’immenso lavoro culturale da fare in Italia e del fare comunità, unica, a mio parere, strada per uscire da questa situazione. C’è una Italia bellissima e nessuno ce lo dice, ecco, mi sento molto grata di averlo sperimentato sulla mia pelle e di poter farmi strumento di divulgazione. Le persone e la società hanno un immenso bisogno di bellezza. 

Puoi raccontarci della scuola in quel paese del Golfo di Policastro (l’Istituto Comprensivo Statale Santa Marina a Policastro) con cui hai condiviso una delle tantissime esperienze del tuo viaggio? In questa scuola è molto viva l’attenzione per l’ambiente e le limitazioni di sprechi (non si usa la plastica, i bambini coltivano un orto, mangiano cibi sani e suonano con strumenti musicali creati con materiali di riciclo). Cosa ti ha colpito di più della buona gestione di questa piccola comunità? Cosa credi abbia funzionato in questa scuola, che non funziona invece nella maggior parte delle altre? 

Ho incontrato Maria (la preside della scuola, ndr) dopo che diversi segnali mi avevano condotto a lei e l’ho trovata una donna molto forte e delicata allo stesso tempo.
Mi ha colpito la cura che si dà ai bambini, la qualità dei progetti e le strade, tante, che gli si offre per scoprire sé stessi, i propri talenti ed il mondo nel rispetto dell’economia e della legalità. In un paesino piccolo, immerso nel Cilento, un lavoro del genere é davvero rivoluzionario.
Funziona perché penso che Maria abbia una grande energia e sia riuscita a coinvolgere gli insegnanti, le famiglie ed i ragazzi stessi che percepiscono, per primi, l’autenticità delle idee. I giovanissimi si appassionano sentendosi visti come singoli e capaci individui, nonché futuri responsabili cittadini. É stato davvero un incontro molto stimolante.


So che, al contrario, la parte più difficile del tuo viaggio non ha avuto niente a che vedere con situazioni materiali, di comodità o di spesa. Sono state piuttosto le parole di alcune persone che ti hanno impressionata negativamente per la loro chiusura. Vuoi dirmi cosa ti lascia più senza parole?

L’ignoranza e la violenza che ne scaturisce. Ho sentito espressioni tipo “ne**i di me**a”, “per me potrebbero affondare tutti”, “traditori della patria ed invasori”  pronunciate come se fosse legittimo farlo da persone prive di alcun genere di argomentazione teorica.
Ciò che mi ha spaventato é osservare che spesso queste frasi “ad effetto” sono pronunciate da persone che non hanno nessuna informazione sui numeri reali attuali, sulle condizioni di vita nei paesi di provenienza dei migranti né talvolta sulla loro localizzazione, sulle normative che legiferano la materia ma nemmeno nessuna, o poca, capacità di ascoltare chi, per formazione, ha maggiori competenze in merito. Ho assistito a molta paura, molto sconforto e il riversamento di questa frustrazione su un capro espiatorio che diventa valvola di sfogo. Ho provato rabbia perché questo meccanismo é premeditato e voluto e dunque violento.
A volte è stato possibile avere uno scambio, porre delle domande e rispondere a dei quesiti. Uno dei tanti: ma perché poi prendono il barcone quando esiste l’aereo? Una domanda disarmante nel 2019 perché mostra, chiaramente, una totale ignoranza in materia, una mancanza di curiosità, di voglia di analizzare in maniera approfondita le questioni.
Altre volte è stato impossibile gestire una conversazione perché l’interlocutore non dava proprio modo, urlando, di apportare dei contenuti.
Ci tengo a sottolineare l’esiguità di questi incontri in termini numerici.

Barbara
foto di: Viaggiare a piedi scalzi

Hai conosciuto anche persone che avessero voglia di aprirsi all’altro, voglia di integrazione? Puoi raccontarci un’altra esperienza, oltre a quella della scuola di Policastro, che ti ha fatto capire di esserti imbattuta in un atteggiamento simile al tuo, di accoglienza, di inclusione, di voglia di scoprire che esiste ancora una comunità propriamente tale, anche in un periodo di forte individualismo, di forte retorica della divisione (del tipo “prima gli italiani”, “aiutiamoli a casa loro”) come questo?

Assolutamente sì e sono state, senza alcun dubbio, la maggioranza.
Posso raccontare la storia della Fattoria Al di Là dei sogni, a Sessa Aurunca, che, in un terreno confiscato alla camorra, si occupa di persone provenienti da situazioni di grave disagio sociale tramite agricoltura biologica e sociale; una fattoria didattica, una struttura per il turismo sostenibile e servizi di ristorazione.
Conoscere chi, da anni, mettendo a rischio la proprio incolumità e mettendo a disposizione la propria vita, ha cambiato un territorio e contribuito a rivoluzionare, in positivo, la vita di altri esseri umani, e così facendo la propria, è per me uno dei più forti insegnamenti ricevuti in questo viaggio. La resistenza formato persone, ecco cosa ho visto alla Fattoria.

Il tuo viaggio è un messaggio di speranza; cosa speri, oggi, per l’Italia?

Cultura e risveglio. Spero che, casa dopo casa, si ricominci a (ri)conoscersi, a fare relazione, ad aprirsi, a pretendere onestà da sé stessi, in primis, e da chi governa questo paese.

Ad oggi, finito il tuo viaggio, puoi dirci cosa ha significato tutto questo per te? Cosa farai per continuare a seguire questa voglia di solidarietà, di integrazione, di comunità?

Questo viaggio ha spostato il senso del “limite” di qualche miglio più in là. Al momento mi sembra che sia tutto più fattibile di prima, mi ha permesso di riconnettermi con la mia creatività ed ispirazione e ora ho un file pieno di idee e progetti per il futuro, ma anche molta più fiducia nella Vita e nelle sue occasioni. Stiamo a vedere.
Sicuramente mi piacerebbe scrivere e parlare di viaggi e di superamento delle proprie paure ai giovani, che sono il nostro futuro, la nostra speranza. Credo fermamente che persone felici siano la base di una società più equa, rispettosa e giusta, mi piacerebbe portare in giro questa luce che ho raccolto nei mesi.

affinché i diritti siano davvero umani

Senza regole non è pensabile nessuna organizzazione sociale, nessuna società può esistere senza delle regole. Per questo è così importante rendersi conto che le regole esistono per una ragione, e non è quella di essere infrante. Io penso che le regole esistano perché senza di loro nessuno saprebbe cosa fare. Immaginate di essere in un isola deserta, dove è rimasta solo una piccola comunità, isolata dal resto del mondo. Come sapreste come collaborare, a quale scopo farlo, e perché, senza delle regole? Chi dovrebbe decidere, perché? Come legittimare qualunque azione, senza sapere in quale direzione dovremmo andare? Le regole costituiscono nel loro insieme il diritto, e il nucleo del diritto non è altro che l’unità costitutiva di ogni società. Di più, l’unità costituente: in lei è depositato il senso stesso della società, il suo progetto. È per questo che abbiamo bisogno di regole, perché non siamo in grado di compiere sempre azioni consapevoli, e i nostri progetti, nelle nostre mani sole rischierebbero di svanire, di prendere altre direzioni, talvolta forse troppo volubili persino per potersi realizzare.
Poi accade che le leggi si facciano forti, si legittimino, si irrigidiscano. Non è più il dominio dell’uomo sull’uomo, ma della legge sull’uomo, su ogni uomo. In una società liberale (come quella che si è costituita in Europa a partire dalle idee del giusnaturalismo e del costituzionalismo) questo poteva essere considerato l’ideale: nessuna sovranità imposta dall’alto, perché anche sull’alto si impone, unica sovrana, la legge.

Ma la legge non è cosa che si faccia da sé: la legge è un artificio dell’uomo, e ha bisogno dell’uomo per farsi. Non di un solo uomo, ma di partecipazione, una legge non può che essere legittimata dalla volontà comune, che non è quella di Rousseau, non è la sovranità popolare degli alienati nella comunità, ma assomiglia più alla pratica comunicativa di Habermas, al suo tipo di uomo, un uomo che non agisca solo in senso strumentale e in vista di un fine materiale, ma che sappia anche comunicare alla ricerca di un intesa che avvicini le diverse soggettività. Solo il principio del discorso, in questo senso, può legittimare il diritto. Solo una discussione razionale che richieda la partecipazione del maggior numero di persone può legittimare il diritto.
Al di là delle pretese su un tipo di democrazia molto lontano da quello di oggi, queste teorie mi hanno sempre fatto credere ad un accezione piuttosto complessa dei diritti umani. Diritti umani non può significare diritti per gli uomini (che esistano prima degli uomini e che in quanto tali costituiscano una visione unilaterale del concetto stesso di uomo e di diritto), quanto piuttosto diritti degli uomini, diritti che gli uomini hanno desiderato per se stessi e che si sono presi, si sono costruiti nel modo in cui Hume faceva costruire loro l’artificio della società e della giustizia.
Quello che significa questa sottile differenza che ho tentato di fare (che non indica altro se non che il protagonista di diritti umani è l’uomo in carne ed ossa, e non il principio di uomo) è che un diritto per essere umano non può poggiare su un uomo solo, o su una sola accezione dell’uomo. Hegel diceva che la libertà è tale soltanto quando è universale, quando la consapevolezza di essere liberi è di ogni uomo. Ecco allora il senso: un diritto è umano soltanto quando comprende tutti gli uomini, perché l’umanità non ha in nessun uomo la sua fine né il suo inizio, e comprende ognuno di essi in modo uguale, e soprattutto in modo particolare.
Allora io mi chiedo: quanto è umano un diritto che è concetto squisitamente occidentale? Un diritto che, ad esempio, è democrazia, e uno specifico modello di democrazia, cioè quello occidentale, quello dell’economia capitalista e del mercato libero.
Schmitt chiedeva di non credere a chi parlava di umanità, perché tentava soltanto di ingannare e di imporre la propria egemonia, sotto la pretesa di una generalizzazione/inclusione globale che, in quanto tale, implicava per forza una esclusione: l’esclusione dell’altro, della sua alterità che è l’essenza stessa del suo essere umano.

Voi credete davvero che la democrazia possa salvare il mondo intero? Credete davvero che si possa esportare un concetto (di diritto, come di uomo, di società, eccetera) nato e cresciuto in Europa, e pretendere che grazie ad esso nessun bambino abbraccerà più un fucile? Io non ci credo, perché credo che la realtà sia più complessa di così.
Non si parla di democrazia o di tirannide: ci sono molti più fattori in gioco, fattori complessi che derivano anche in gran parte dalle specificità di ogni luogo.
Ho letto delle donne in Cecenia che vengono stuprate: per loro non c’è solo questa violenza, la loro cultura prevede che queste donne vengano uccise, e vengono uccise dai loro stessi familiari, e così per loro è interdetta anche la vita. Spesso, durante la guerra, erano gli stessi soldati russi a violentare queste donne, e i loro crimini restavano impuniti anche perché l’unico modo per salvare le donne era non far sapere cosa era successo loro. Ma un ceceno non è un barbaro, un ceceno è un uomo, un uomo che nessuna democrazia può aiutare.
Vale anche per le donne africane che non possono accedere alle contraccezioni perché la forte religiosità del contesto in cui vivono non lo permette loro, perché non lo permettono a se stesse: ma come potrebbero permetterlo? Loro non sono nate in Europa, le loro madri non avevano già ottenuto di gran lunga rispetto alla generazione precedente la loro autonomia. Semplicemente, le loro madri non sono le nostre, e le loro figlie non possono essere aiutate dalla retorica dell’eurocentrismo. Sono esseri umani, ma non sono europei, non sono occidentali. In quanto esseri umani hanno il diritto di avere diritti, in quanto autonomi e capaci di diversità (che non significa inferiorità, che non significa impossibilità di comunicare) hanno il diritto di essere compresi per quello che sono.

La realtà è diversa in ogni luogo del mondo, in ogni società: ognuna di esse ha bisogno di un aiuto, costruito ad hoc per ognuna, perché non esiste un solo modo di essere umano, di essere madre, di essere donna o di essere una società.


Serena Linari


Riferimenti:
Anna Politkovskaja Cecenia, il disonore russo. Fandango 2003
Luca Scuccimarra Proteggere l’umanità. il Mulino 2016

Primo passo: leggere, studiare

Mi continuo a ripetere che leggere non basta. Non basta leggere, non basta studiare. Non basta, ma da qualche punto bisogna pur iniziare. E se c’è un luogo dove penso sia giusto farlo, questo luogo è la cultura. Sono i libri, gli studi, la ricerca.
Sartre diceva che il compito di uno scrittore è mostrare agli uomini cosa è il mondo, e soprattutto cosa sono gli uomini, così che nessuno possa dirsene innocente. Se questo è vero, io penso che il primo compito di uno scrittore (ma anche di chiunque voglia affermare la sua opinione, o anche solo averne una che sia critica e autonoma) sia quello di leggere.
Sono qui per ringraziare Jean Paul Sartre, scrittore, filosofo, giornalista, attivista politico. Sartre studia, Sartre scrive, Sartre legge, e Sartre pensa che l’uomo debba costruirsi da sé. Che i suoi sogni, le sue idee, le sue aspirazioni debbano diventare azioni per esistere davvero, che l’esistenza preceda l’essenza, perciò quando un uomo nasce non nasce in un mondo già giusto, ma la giustizia deve costruirla con le sue mani, attraverso le sue azioni, il suo impegno, la sua decisione. Sartre condanna l’uomo ad essere libero, e questa condanna implica una responsabilità. Nessuno può sottrarsene, perché se è vero che non scegliamo noi in che epoca nascere, in quale paese, in quale famiglia, è vero che possiamo ridefinirci in ogni momento, e che quel contesto predeterminato possiamo ricostruirlo con le nostre scelte.
Io amo la mia condanna, la mia condanna ad essere libera. Non tutte le persone sono condannate con la stessa nostra fortuna.
Ma Sartre non basta. Non basta, quindi ho studiato John Rawls. Rawls ragiona con un esperimento mentale che lo porta a spiegare quale sarebbe una società giusta per tutti. Dice che in una società come questa le disuguaglianze potrebbero essere tollerate soltanto se aiutano gli svantaggiati. Rawls parla di beni sociali primari, di diritti e di strumenti per aiutare tutti ad essere liberi. Ma una cosa in particolare mi ha colpita di lui: Rawls non pensa che chi è più fortunato si debba sentire in dovere di aiutare chi non lo è come lui per uno spirito di carità, per virtuosismo. Rawls pensa che sia la moralità dell’uomo ad essere affamata di giustizia; che ognuno, in quanto uomo, non conoscendo la sua attuale situazione e i suoi interessi, vorrebbe vivere in una società equa. Non perché è buono, non perché è altruista: perché è un uomo, e in quanto tale capace di pensare in astratto rispetto alla propria realtà attuale.
Neanche Rawls basta. Ad andare oltre la sua teoria della giustizia ci aveva già pensato l’indiano Amartya Sen, che non parla soltanto di beni da distribuire equamente, ma di capacità, perché il bene è soltanto uno strumento che ha valore solo se produce nelle persone libertà, cioè capacità, capacità di non morire di fame, di guarire, di fare delle scelte di valore.
So che neanche questo basta. Leggere non basta, non basta studiare e non basta neanche scrivere. Ma tutto questo riflettere, io penso che ci renda migliori. Gli scrittori ci mostrano come è il mondo, e non dovrebbero fermarsi ad intrattenerci. La scrittura è azione, è uno slancio. Io ringrazio Sartre, ringrazio Rawls, ringrazio Sen perché hanno scritto qualcosa prima di me, qualcosa che posso usare per essere una persona migliore.
All’interno di questo blog vorrei pensare, vorrei studiare, vorrei scrivere per ridare alla cultura quella forza, perché credo in quello che pensava Michel Foucault, quando diceva che gli intellettuali dovrebbero interessarsi alle persone toccate dalle questioni che interessano loro. A me interessa l’uomo perché mi interessa aiutarlo, per questo ringrazio con tanta insistenza tutti gli studiosi dell’uomo che siano mai esistiti fino ad ora, e che esisteranno: perché non scrivono perché resti sulla carta, loro scrivono per aprire i nostri occhi alla realtà, ed io studierò, e non me ne dirò più innocente.

Serena Linari