L’intellettuale: disonesto o muto o… ?

Non è facile scrivere il dolore, allora i media oggi mostrano sempre più le immagini dell’orrore che dilania il mondo, un orrore che in quanto tale si può fotografare e si può narrare. Come ho detto, l’orrore è un immagine, l’immagine di un dolore che non può essere percepito facilmente ma che come tale, come rappresentazione, non può restituire totalmente la verità di quello che vuole raccontare.
Questa similitudine tra dolore e la sua sola immagine è stata a mio parere ben esplicitata in un verso di una delle canzoni di De André. Qui il cantautore fa parlare le madri dei ladroni che furono crocefissi insieme a Gesù; sono loro a dire a Maria che il suo dolore, dato che suo figlio risorgerà, non è che l’immagine di un’agonia, solo un’immagine e nient’altro. Ecco: l’orrore non mi sembra altro che l’immagine del dolore, un’immagine ricostruita e portata alla coscienza o perlomeno all’attenzione di tanti o tantissimi, ma che, in quanto tale, non restituisce abbastanza dell’originario dolore.
Con questo non voglio dire che dovremmo imparare a conoscere il dolore sulla nostra pelle. Io sono grata del mio privilegio (o, per continuare a tenere a mente la canzone, che mio figlio realisticamente sarà un “Gesù” e non uno dei ladroni) e non posso disconoscere per nessuna ragione niente di questo. Ma penso anche che l’orrore sia solo il punto di partenza, e non l’arrivo, di una corretta diffusione dell’informazione.
Davanti al dolore nasce in me questo interrogativo: quanto è superficiale in noi questo aspetto della vita? Per noi morire di fame è solo un discorso, è solo una canzone? Queste domande scaturiscono soprattutto da una riflessione quasi banale nella sua semplicità; laddove sono i privilegiati, i benestanti che hanno il tempo di cantare, anche se decidessero di cantare, di scrivere o di combattere per gli esclusi, per i sofferenti, resterebbero lo stesso ricchi, resteremmo noi che tentiamo di spiegare il mondo senza capire veramente il dolore che non lascia scelte, senza capire veramente come vive gran parte dei suoi abitanti. Abbiamo noi una percezione abbastanza veritiera delle loro vite, delle loro sofferenze, delle loro esperienze, dei loro caratteri? E ancora: le immagini che ci riportano gli strazi di una guerra, della fame, di un disastro umanitario o naturale ci forniscono una visione abbastanza significativa, specialmente oggi, nell’era dell’informazione lampo? Spesso ho sentito dire che una foto, su una piattaforma internet, resta nelle nostre menti troppo poco a lungo per sedimentarsi e renderci capaci di sviluppare al riguardo riflessioni degne di tale nome. Scorriamo, a forza di click, e nel giro di pochissimo tempo veniamo invasi da una quantità di notizie enormi, notizie che cercando di catturare la nostra attenzione attraverso immagini e escamotage narrativi perché senza di essi non siamo più in grado di distinguere tra notizie degne di nota e notizie da tralasciare.
Stando dietro ad un computer o allo schermo di un telefono cellulare vorremmo, nel migliore dei casi, tentare di conoscere una realtà che non ci appartiene. Dimenticare questo punto comporta un atteggiamento presuntuoso che non possiamo permetterci né nel nostro compito di informarci né in quello di informare. Studiare significa essere aperti alla conoscenza, significa continuare a cercare consapevoli di non raggiungere mai la meta agognata, perché ogni passo in avanti scopre terre inesplorate che prima non sognavamo neppure di conoscere e che adesso possiamo iniziare a percorrere, sapendo pure che non saranno mai le ultime. Non c’è un punto d’arrivo né alcuna tappa finale. Ma l’onestà che presuppone questo atteggiamento non è difficile da perdere.
In City Baricco scrive il Saggio sull’onestà intellettuale. Questo piccolo tesoro di verità contiene poche e concise tesi che senza girarci intorno descrivono l’atteggiamento dell’intellettuale umanamente disonesto, colui che usa le idee come armi – le uniche che conosce – per assicurarsi la sopravvivenza in un mondo competitivo e aggressivo.
In questo processo l’uomo perde la sua verità, tradisce le sue idee perché le trasforma in oggetti per potersi guadagnare da vivere. Baricco non chiede di più all’uomo, anzi: definisce disumano sforzo un atteggiamento opposto a questo, perché un intellettuale armato di idee è solo un uomo che vuole sopravvivere, come ogni altro, e che ha solo le idee da usare come strumenti per realizzare questo fine.
In più, l’autore aggiunge, lapidario: un’altra vita saremo onesti. Saremo capaci di tacere.
Rimanere in silenzio quando non si può essere onesti: questo il messaggio finale del Saggio. Ma non è ridicolo uno scrittore, un giornalista, un sapiente costretto a tacere per non usare le proprie idee in modo sbagliato, di più, per riuscire a non usarle affatto? Baricco scrive che un intellettuale onesto é un ossimoro, e se fosse così allora la sua onestà risiederebbe davvero nel tacere. Ma al di là dell’importanza di saper anche non parlare, non dire e non scrivere, oggi capacità davvero poco diffusa, a mio parere c’è di più; le possibilità di onestà si allargano se si tiene a mente che noi nasciamo (come uomini e donne prima, come studiosi e studiose poi) dal privilegio, e nel privilegio leggiamo e scriviamo, studiamo e raccontiamo, e, quando c’è ancora da capire e da studiare, allora capiamo la necessità di tacere.
Ancora De André, ancora la stessa canzone: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte.
Lasciateli piangere un po’ più forte, cioè lasciateli raccontare, parlare, gridare. Lasciateli piangere più forte degli articoli di giornale che riempiranno la nostra carriera, dei nostri studi, della nostra etica da esperti, del nostro background culturale, della nostra idea sul loro dolore. Così, a parere mio, ritroveremo un po’ dell’onestà che ci si vuole portata via, o irrimediabilmente perduta chissà dove nella strada della vita, della corsa per la nostra affermazione.
Questa non vuole essere retorica, non è un richiamo ai valori perduti. É una constatazione: il compito dell’intellettuale non sarà soffrire né perdere se stesso nel tentativo di capire gli altri, ma nei suoi studi c’è prima di ogni altra cosa la verità, che noi abbiamo la fortuna e il compito di raccontare, e che non possiamo mancare di rispettare. Esistono ancora persone nel mondo che non possono parlare, scrivere, studiare. Che, in generale, non hanno voce per gridare il loro pianto, e il cui singhiozzare è sovrastato dalle grida di chi racconta storie che non hanno dignità né verità, ma che sono armi nella lotta per la sua realizzazione personale. La nostra è una battaglia per sopravvivere, o una corsa per far sopravvivere la verità?

Avevo paura che queste parole suonassero come un inno di battaglia, come una tiritera intrisa di giusti e di sbagliati, come un’etica che la fa da padrona. Volevo cancellarlo o evitare perlomeno di pubblicarlo perché ho paura della retorica e non ne ho alcuna stima. Però, in tutta sincerità, penso che ci sia qualcosa di buono in questo scritto. Può darsi che non sia l’onestà e neppure la chiarezza, può darsi che suoni più ridicolo di quanto possa permettermi di sembrare io stessa. Accetterò questo peso, perché dovevo provarci lo stesso. Voglio che sia diretto e voglio che sia consapevole. Voglio provare, come ha sempre tentato De André, di proteggere il sacrosanto privilegio (che non riesco a chiamare ancora diritto, non essendo concesso a tutti a questo mondo) di raccontare il dolore (anche quello degli altri) continuando a considerare questo una grandissima fortuna, e una a cui va restituita la dignità che le spetta, e senza la quale perderebbe molto del suo significato, forse troppo. Forse tutto.

Serena Linari

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