"Penso dunque sono" significa che dobbiamo fare qualcosa per diventare umani, non lo siamo soltanto perché nasciamo. Lo diventiamo perché vogliamo farlo.
L’agency indica la capacità di una persona di uscire da una situazione di malessere o disagio, contando sulle proprie forze e sulla propria capacità di essere indipendente e attiva. Le persone povere, sole o che affrontano disagi sociali di qualunque tipo non possono essere trattate come vittime inermi e totalmente passive, perché questo significherebbe negare loro la propria capacità di cambiamento, di adattamento, di ribellione; la loro agency in generale. Questo scorcio di vita, l’ultimo che posteró per questa raccolta, ricorda che una persona in difficoltà non è un bambino senza capacità di decisione, da proteggere con l’autorità di un genitore, ma una persona completa, piena di stimoli e di soluzioni già dentro di sé, da aiutare da pari a pari, nel pieno rispetto della sua indipendenza e unicità.
III.
“Faccio la prostituta, la puttana, la mignotta, come vuoi dirlo tu dillo, non sono tenera come le gattine che salvi dalla strada e non mi metto a piangere per una parola di troppo. Anzi, io sono quella che si incazza, sono quella forte che grida sulla strada di andartene per un altra via se stai combinando casini con me o con le mie amiche.
Non ho bisogno di te, ecco come te lo volevo dire; ora sì che ho trovato le parole giuste. Non ho bisogno della tua pietà, del tuo struggimento, di te che sfrecci con la macchina perché non mi vuoi vedere mezza nuda, e poi commenti alla tua bella signorina qualche cosa come “poverina, non deve essere facile”. E poi continuate, e pure lei dice “poverina, non ha trovato di meglio ed è costretta a vendere il suo corpo, é obbligata, é una vittima, la sfruttano e fanno di lei quello che vogliono.” Eh no, bello. Non ci credi, offende la tua morale, il tuo senso del giusto e del bello, ma qui non c’è nessuno che mi sfrutta. Porto i miei clienti a casa mia, scopiamo, danno i loro soldi a me e se ne vanno via. E non é neanche così difficile come ti pensi!
Te la faccio ancora più chiara, ascolta: tu non mi puoi salvare perché non c’è niente da salvare qui. Farò abbastanza soldi e riuscirò finalmente a pagare un vecchio debito, e poi finirà lì. Niente mafia, niente botte e niente film americani. Dai retta a me, che il lavoro lo faccio da qualche anno; c’è un solo rischio, una sola cosa importante che ti devi sempre ricordare: il preservativo! “
Vedo un sacco di ragazzi entrare e uscire entrare e uscire entrare e uscire da quelle porte. Sono tutti così piccoli e scommetto che a loro perdonano tutto, e anch’io gli perdono di passare a un metro da me senza neanche accorgersi che ci sono, e che muoio di fame. Pazienza, non se ne accorge nessuno. Perché dare la colpa a dei ragazzini?
Loro non mi vedono neanche ma io li conosco tutti quanti. Conosco le loro facce, sempre le stesse, tutte le mattine. Mi ricordo di quando ero piccolo pure io e a scuola ci si andava una volta sì e l’altra no perché mio padre aveva bisogno di aiuto al mercato. Vendeva calzini, mutande, cose che servono a tutti, e io che ero un bambino scemo, io che ero un bambino scemo, io che ero un bambino scemo mi chiedevo ma perché non siamo ricchi, se le mutande servono per forza a tutti quanti e se le devono comprare tutti?
Poi mio padre è morto. Morto d’improvviso. E non mi importa che sono cose che succedono, mi importa che è successo a me. Al mercato mi chiamavano tutti lo scemo perché parlavo male e stavo là solo perché papà mi ci portava. Morto lui morto lui morto lui – siamo morti tutti.
Prima ero scemo, ora sono invisibile. Almeno nessuno si accorge più che sono scemo. Però non si accorgono neanche che ho freddo ho freddo ho freddo. La notte è difficile stare fuori, se ti addormenti lo sai che rischi che non ti svegli più. Ma che ne sai te che ne sai te che ne sai te.
Ci stanno dei ragazzini che ci vengono una volta sì e l’altra no a scuola, e quando li vedo passare gli grido di tirare dritto e non mancare troppo alle lezioni. Loro si mettono a ridere e per un attimo un attimo – un attimo mi guardano e io per quell’attimo esisto.
Riflettendo ancora sui diritti, sull’essere umani, sull’inclusione dell’altro ho avuto modo di intervistare Barbara di Viaggiare a piedi scalzi, con la quale abbiamo cercato di ragionare ulteriormente su questi temi a partire dalla sua piccola grande impresa: un viaggio zaino in spalla dalla provincia di Bologna all’isola di Lampedusa – scelta affatto casuale – per riscoprire i legami di una comunità a cui oggi tendiamo a dare significati troppo riduttivi. Per troppi oggi la comunità è interpretata nient’altro che come un posto sicuro delimitato da confini certi, che divide l’estraneo da quello che conosciamo e dalle persone di cui possiamo fidarci, e che riduce l’eterogeneità per dare forma alla nostra ossessione per la sicurezza. Citando Ulrich Beck, Bauman ci ricordava che pensando in questi termini rischiamo di cercare un soluzione individuale a problemi comuni, affrontando anche le questioni sociali seguendo un ottica individualistica. Per capirci, questo sarebbe come cercare di usare la matematica o la logica per risolvere questioni di ordine morale; gesto non soltanto privo di senso e impossibilitato a produrre risultati validi, ma anche tendenzialmente pericoloso, un po’ perché ci rende impossibile individuare la reale causa (comune) di problemi (comuni) che noi invece viviamo come individuali, un po’ perché dà adito a pseudo-ragionamenti non soltanto privi di intelligenza, ma anche privi di tolleranza, perché il sogno individualistico di una comunità sicura è anche il sogno di una comunità che divide. Col suo viaggio Barbara vuole parlarci di un altro tipo di comunità, una comunità che si allarga, passo dopo passo, e non si restringe mai (non intorno a noi stessi, non intorno alla nostra cerchia familiare e nemmeno intorno al nostro paese). È una comunità mobile che non immagino entro un confine ma che immaginerei piuttosto come un dono, un’attività, uno scambio: come quotidiana pratica di avvicinamento all’altro. Ed è proprio l’altro ad essere centrale nel viaggio – che è più un progetto – di Barbara. I suoi gesti e le sue parole mi hanno ricordato anche Vecchioni che cantava di come al di là del torto e della ragione contino soltanto le persone, e che questo siamo noi a doverlo insegnare, prima di tutto a noi stessi, e poi gli uni agli altri, come sta facendo Barbara.
Barbara in viaggio per Lampedusa foto di: Viaggiare a piedi scalzi
Ciao Barbara! Volevo innanzitutto chiederti riguardo alla tua indole da viaggiatrice. Hai viaggiato molto prima di intraprendere questo particolare viaggio? Cosa ti spinge a partire, e cosa ti lascia dentro ogni viaggio? Conoscere le culture, le persone, i luoghi, e conoscere tutto questo da vicino ti ha cambiata?
Ho sempre amato viaggiare ma é dal 2015 che il viaggio ha assunto una funzione così chiaramente evolutiva nella mia vita; mi permette di diventare una persona più consapevole e di fiorire. Da quell’anno ho seguito, pur continuando a lavorare, i richiami di alcune terre, in solitaria o meno, con una particolare predilezione per il bacino del Mediterraneo ed il nord Africa. Ogni viaggio ha avuto un insegnamento ed è arrivato al momento giusto, dalle Seychelles alla Tunisia. Ogni volta è stato un passaggio, una iniziazione ed ogni viaggio mi ha portato ad evolvermi su qualche aspetto. Il primo, lungo 100 giorni, nell’estate di quattro anni fa aveva l’obiettivo di farmi stare un po’ con la nuova me dopo grandi cambiamenti personali e sono profondamente convinta che io ora sono quella che sono grazie alle esperienze fatte, alle persone incontrate, agli imprevisti, ai km fatti a piedi o su un matatu keniota, agli stereotipi sgretolati, ai cibi, ai paesaggi ed ai passaggi ricevuti.
Puoi raccontarci brevemente il tuo viaggio? Da dove sei partita? Quale era il tuo itinerario e quale la tua meta? Quale, soprattutto, il motivo alla base di questo viaggio?
Sono partita il 21 marzo da Livergnano, in provincia di Bologna, con l’obiettivo di raggiungere Lampedusa e di farlo senza soldi, alla ricerca di forme di vita comunitaria, storie di cambiamento ed ispirazione finanziando Mediterranea. L’isola, la porta d’Europa, è stata scelta come luogo simbolo di confini che legiferati in questa maniera uccidono chi non è in possesso di un passaporto europeo. Il viaggio ha lo scopo di ritrovare ispirazione, di andare alla scoperta e valorizzazione dei miei talenti, di sperimentare il senso di comunità e la bellezza in questo paese e di poterla raccontare, e inoltre quello di stimolare il dialogo sul tema delle migrazioni.
Hai voluto percorrere la tua strada senza la tua auto, senza nessun compagno di viaggio, senza soldi. Perché hai scelto questa modalità per il tuo viaggio?
Viaggiare “da sola” mi permette di viaggiare con me, di essere libera nei tempi e nelle scelte, mi permette di ascoltarmi, di usare solo le mie capacità ed il mio istinto e, ho notato, di essere più aperta e socievole con gli altri e con il contesto. L’idea di partire senza soldi nasce da una paura personale di rimanere senza denaro sorta quando ho deciso di cambiare strada dal punto di vista lavorativo: l’anno passato, non trovando più rispecchiati i miei valori, ho deciso di chiudere il decennio da operatrice sociale e avevo paura che non accettando più questo compromesso sarei potuta rimanere senza soldi. Ho deciso così di mettermi in gioco andando a fare proprio ciò che temevo: non poter usare il denaro. Avevo altresì la curiosità di comprendere quali altri mezzi di scambio ci sono tra esseri umani, dunque osservare le mie capacità ed i miei talenti e mettermi nelle mani della solidarietà altrui. Infine, non spendendo in vitto, alloggio e spostamenti, ho deciso di donare il risparmiato a Mediterranea, che si occupa di salvataggio di vite umane nel mare mediterraneo centrale e di cultura sull’argomento a terra.
Come hanno reagito i tuoi conoscenti (familiari, amici..) quando hai dichiarato loro l’idea del tuo viaggio?
Tendenzialmente, ho compreso che ognuno reagisce per quello che é e per quello che ci vuole vedere. Le persone più spaventate erano quelle che avevano meno esperienza in termini di viaggio ed autostop, un amico viaggiatore e scrittore (Giacomo Luppi di con i piedi per terra) che dall’Australia è tornato a Modena senza aerei, alla notizia, ha sorriso e sussurrato “Babi, il mondo è un posto meraviglioso”. La mia famiglia é abbastanza abituata all’immagine di me in viaggio e mia mamma mi ha raggiunta a Lampedusa. Mio babbo invece è molto più spaventato e vorrebbe per me una vita totalmente ordinaria, che, io so bene, non mi renderebbe felice. Tendenzialmente (ex fidanzato escluso!), ho ricevuto molto sostegno dalle amiche, dagli amici, dagli attivisti di Mediterranea e da tante persone conosciute grazie ai social network.
Puoi parlarci della donazione che hai elargito in favore di Mediterranea alla fine del tuo viaggio?
Ogni mese ho effettuato un bonifico bancario a Mediterranea, traducendo in moneta ciò che avevo ricevuto in scambio lavoro o donazione ed esplicitando il progetto a chi mi ospitava e mi dava un passaggio in autostop. L’ho fatto perché ritengo che sia uno dei più bei progetti di resistenza e di bellezza contemporanei in Italia che, esattamente come il mio viaggio, é possibile solo grazie ad un senso di comunità e di unione tra cittadini. Sommando i primi due versamenti, finora, ho potuto donare circa 800 euro.
Cito direttamente dal tuo blog: “A me servivano i viaggi e mi servono ancora per rendermi conto […] che il mondo é molto più pericoloso se visto dalla tv che da un marciapiede.” Si può dire che con questo tu ti sia resa conto che non bisogna fermarsi alle notizie dei giornali, della televisione, ma invece bisogna impegnarsi a conoscere la realtà dal vero? Questo ti ha dato la possibilità di educare te stessa ad uno sguardo più attento, ad un pensiero più critico? Pensi che possa essere una cura contro i pregiudizi?
Assolutamente sì. Spesso dico che viaggiare dovrebbe essere obbligatorio. E chiaramente non mi si può dire che per farlo servono soldi! Provo molta rabbia perché ritengo che i mezzi di informazione siano utilizzati per una propaganda che ha il chiaro scopo di separare le persone e rinchiuderle dietro la paura. Per esempio, la frase che mi sono sentita dire più spesso é “per una donna sola, di questi tempi é pericoloso…” quando secondo l’Istat, ma anche secondo la mia esperienza da assistente sociale e, purtroppo, anche nelle storie di diverse amiche, la maggior parte delle delle violenze accade per mano di un uomo conosciuto: un padre, un amico, un ex fidanzato. Con questo non sto negando o minimizzando il rischio di aggressioni da parte di sconosciuti, ma piuttosto affermando che la situazione attuale imporrebbe una riflessione profonda sul tipo di relazioni uomo/donna e sarebbe ben più utile e necessaria che inculcare timori e limitazioni alle donne sulla presunta esistenza di estremi pericoli appena uscite dal cortile di casa. Non è così. I pericoli sono percentualmente, più che altro, dentro le mura di casa. Ecco – con le dovute precauzioni – andare nel mondo e rendersi conto che gli sconosciuti non sono poi così pericolosi come i mass media vogliono farci credere, credo sia un gesto di resistenza e di sviluppo di un indipendente pensiero critico nella ferma convinzione che ciò che viene esperito sulla propria pelle sia il miglior antidoto all’imperante clima d’odio ed agli stereotipi.
Questione politica; prima di fare questa intervista mi hai detto che il tuo viaggio, per meglio dire il tuo progetto di crescita, come tu stessa hai specificato, è necessario in un contesto come quello di oggi. Cosa volevi dire?
Il viaggio nasce come piccolo ma concreto gesto di resistenza alle norme che hanno reso il mar mediterraneo un mare di morte e come risposta alla domanda: abbiamo così bisogno di avere paura di ciò che non conosciamo? La risposta è no, non ne abbiamo così urgenza. Piuttosto abbiamo la necessità di scoprire, sperimentare e dare luce alla bellezza, di renderci conto dell’immenso lavoro culturale da fare in Italia e del fare comunità, unica, a mio parere, strada per uscire da questa situazione. C’è una Italia bellissima e nessuno ce lo dice, ecco, mi sento molto grata di averlo sperimentato sulla mia pellee di poter farmi strumento di divulgazione. Le persone e la società hanno un immenso bisogno di bellezza.
Puoi raccontarci della scuola in quel paese del Golfo di Policastro (l’Istituto Comprensivo Statale Santa Marina a Policastro) con cui hai condiviso una delle tantissime esperienze del tuo viaggio? In questa scuola è molto viva l’attenzione per l’ambiente e le limitazioni di sprechi (non si usa la plastica, i bambini coltivano un orto, mangiano cibi sani e suonano con strumenti musicali creati con materiali di riciclo). Cosa ti ha colpito di più della buona gestione di questa piccola comunità? Cosa credi abbia funzionato in questa scuola, che non funziona invece nella maggior parte delle altre?
Ho incontrato Maria (la preside della scuola, ndr) dopo che diversi segnali mi avevano condotto a lei e l’ho trovata una donna molto forte e delicata allo stesso tempo. Mi ha colpito la cura che si dà ai bambini, la qualità dei progetti e le strade, tante, che gli si offre per scoprire sé stessi, i propri talenti ed il mondo nel rispetto dell’economia e della legalità. In un paesino piccolo, immerso nel Cilento, un lavoro del genere é davvero rivoluzionario. Funziona perché penso che Maria abbia una grande energia e sia riuscita a coinvolgere gli insegnanti, le famiglie ed i ragazzi stessi che percepiscono, per primi, l’autenticità delle idee. I giovanissimi si appassionano sentendosi visti come singoli e capaci individui, nonché futuri responsabili cittadini. É stato davvero un incontro molto stimolante.
So che, al contrario, la parte più difficile del tuo viaggio non ha avuto niente a che vedere con situazioni materiali, di comodità o di spesa. Sono state piuttosto le parole di alcune persone che ti hanno impressionata negativamente per la loro chiusura. Vuoi dirmi cosa ti lascia più senza parole?
L’ignoranza e la violenza che ne scaturisce. Ho sentito espressioni tipo “ne**i di me**a”, “per me potrebbero affondare tutti”, “traditori della patria ed invasori” pronunciate come se fosse legittimo farlo da persone prive di alcun genere di argomentazione teorica. Ciò che mi ha spaventato é osservare che spesso queste frasi “ad effetto” sono pronunciate da persone che non hanno nessuna informazione sui numeri reali attuali, sulle condizioni di vita nei paesi di provenienza dei migranti né talvolta sulla loro localizzazione, sulle normative che legiferano la materia ma nemmeno nessuna, o poca, capacità di ascoltare chi, per formazione, ha maggiori competenze in merito. Ho assistito a molta paura, molto sconforto e il riversamento di questa frustrazione su un capro espiatorio che diventa valvola di sfogo. Ho provato rabbia perché questo meccanismo é premeditato e voluto e dunque violento. A volte è stato possibile avere uno scambio, porre delle domande e rispondere a dei quesiti. Uno dei tanti: ma perché poi prendono il barcone quando esiste l’aereo? Una domanda disarmante nel 2019 perché mostra, chiaramente, una totale ignoranza in materia, una mancanza di curiosità, di voglia di analizzare in maniera approfondita le questioni. Altre volte è stato impossibile gestire una conversazione perché l’interlocutore non dava proprio modo, urlando, di apportare dei contenuti. Ci tengo a sottolineare l’esiguità di questi incontri in termini numerici.
Barbara foto di: Viaggiare a piedi scalzi
Hai conosciuto anche persone che avessero voglia di aprirsi all’altro, voglia di integrazione? Puoi raccontarci un’altra esperienza, oltre a quella della scuola di Policastro, che ti ha fatto capire di esserti imbattuta in un atteggiamento simile al tuo, di accoglienza, di inclusione, di voglia di scoprire che esiste ancora una comunità propriamente tale, anche in un periodo di forte individualismo, di forte retorica della divisione (del tipo “prima gli italiani”, “aiutiamoli a casa loro”) come questo?
Assolutamente sì e sono state, senza alcun dubbio, la maggioranza. Posso raccontare la storia della Fattoria Al di Là dei sogni, a Sessa Aurunca, che, in un terreno confiscato alla camorra, si occupa di persone provenienti da situazioni di grave disagio sociale tramite agricoltura biologica e sociale; una fattoria didattica, una struttura per il turismo sostenibile e servizi di ristorazione. Conoscere chi, da anni, mettendo a rischio la proprio incolumità e mettendo a disposizione la propria vita, ha cambiato un territorio e contribuito a rivoluzionare, in positivo, la vita di altri esseri umani, e così facendo la propria, è per me uno dei più forti insegnamenti ricevuti in questo viaggio. La resistenza formato persone, ecco cosa ho visto alla Fattoria.
Il tuo viaggio è un messaggio di speranza; cosa speri, oggi, per l’Italia?
Cultura e risveglio. Spero che, casa dopo casa, si ricominci a (ri)conoscersi, a fare relazione, ad aprirsi, a pretendere onestà da sé stessi, in primis, e da chi governa questo paese.
Ad oggi, finito il tuo viaggio, puoi dirci cosa ha significato tutto questo per te? Cosa farai per continuare a seguire questa voglia di solidarietà, di integrazione, di comunità?
Questo viaggio ha spostato il senso del “limite” di qualche miglio più in là. Al momento mi sembra che sia tutto più fattibile di prima, mi ha permesso di riconnettermi con la mia creatività ed ispirazione e ora ho un file pieno di idee e progetti per il futuro, ma anche molta più fiducia nella Vita e nelle sue occasioni. Stiamo a vedere. Sicuramente mi piacerebbe scrivere e parlare di viaggi e di superamento delle proprie paure ai giovani, che sono il nostro futuro, la nostra speranza. Credo fermamente che persone felici siano la base di una società più equa, rispettosa e giusta, mi piacerebbe portare in giro questa luce che ho raccolto nei mesi.